Epica
Mentre cerchiamo di capire quali saranno i volti nuovi del Partito comunista cinese, c'è chi è destinato a rimanere all'interno delle più alte sfere: Wang Huning
Xi o no
Cominciamo con le ultime novità. Il 14 settembre Xi Jinping sarà in Kazakhstan, in quella che è la sua prima visita fuori dai confini nazionali dall’inizio dell’epidemia. Dagli osservatori occidentali il viaggio non può che essere letto in un modo: dopo le voci di un’opposizione interna, la visita in Kazakhstan (dove nel 2013 Xi Jinping annunciò la nascita del progetto della “Nuova via della Seta”) è il segnale che Xi è in pieno controllo.
Può essere, o forse certe voci sono state sopravvalutate, Xi ha già deciso tutto e si muove di conseguenza.
Fuori dal furore pre Congresso, però, va notato che ci sarà una prosecuzione del viaggio in Uzbekistan per il vertice dello Sco (Shanghai Cooperation Organization) in programma il 15 e il 16 settembre a Samarcanda.
Lì Xi Jinping incontrerà Putin. Considerando che Li Zhanshu, il numero 3, è in viaggio ed è passato anche in Russia, potrebbe anche essere in corso un chiarimento tra Mosca e Pechino (ulteriore avvicinamento? nuovi accordi? o garanzie da entrambe le parti?), più che una dimostrazione di forza interna di Xi. Ovvero: risolte le beghe interne, torna a occuparsi in prima persona di una delle relazioni più importanti (e ambigue) della Cina a livello internazionale.
L’uscita dal paese di Xi indica forse che ci saranno cambiamenti alla politica “Zero Covid” cinese? Difficile dirlo, il viaggio del numero uno potrebbe essere più il segnale di una ripresa della diplomazia cinese “faccia a faccia”. Oltre a Xi e Li Zhanshu, come ricorda il South China Morning Post:
Il vicepresidente Wang Qishan ha guidato una delegazione in Corea del Sud a maggio per partecipare all'inaugurazione del mandato presidenziale di Yoon Suk-yeol e il ministro dell'Ambiente Huang Runqiu ha visitato gli Stati Uniti a giugno.
Sempre sul fronte relativo a quanto Xi sia in pieno controllo del Partito, è arrivata un’altra notizia direttamente dall’agenzia di stampa statale Xinhua: Ying Yong, che era stato mandato nell’Hubei per gestire l’epidemia (dopo che erano stati fatti fuori molti dei funzionari dopo l’esplosione della pandemia a Wuhan) è stato nominato vice capo della Procura suprema del Popolo.
Ying è stato vicedirettore dell'ufficio di pubblica sicurezza dello Zhejiang
tra il 2005 e il 2007. Indovinate un po’ chi era il segretario del Partito della provincia in quel periodo? Ovviamente Xi. Un altro segnale che lascia intendere che la stretta di Xi sul Partito non è diminuita, anzi.
Voi che dite?
Questo qui sotto invece è il risultato del sondaggio della settimana scorsa, perfetta parità!
Epica
I rumors sulle nomine e sui cambiamenti negli organi apicali del Pcc aumenteranno nelle prossime settimane. Ma è interessante notare chi invece resterà. Ad esempio non ci sono dubbi che all’interno del Comitato Permanente sarà confermato (e vedremo se assumerà anche altri ruoli istituzionali) Wang Huning, il cui ingresso nel gotha politico cinese nel Congresso del 2017 era passato, almeno all’inizio, un po’ in sordina.
Poi tutti se ne sono accorti: Wang Huning è stato definito “la mente oscura”, “il Rasputin”, “il Machiavelli” di Xi Jinping. Di Wang si è sottolineata la sua adesione al cosiddetto “neo autoritarismo” e la sua capacità di essere una specie di “spin doctor” di Jiang Zemin, di Hu Jintao e pure di Xi (sarebbe lui l’artefice della teoria delle “tre rappresentanze” di Jiang, della “società armoniosa” di Hu e del “sogno cinese” di Xi).
Tutto abbastanza vero, ma Wang è qualcosa di più di tutto questo: è il teorico che ha sistematizzato, in pratica, una visione del Partito. Proprio quello di cui aveva bisogno la leadership del Pcc.
Come può la politica mantenere il potere durante trasformazioni epocali? Wang Huning ha la risposta: attraverso la cultura, da intendersi come quel sistema valoriale, tradizionale, che permette di fornire alla società, alla popolazione, una bussola di orientamento in periodi di grandi cambiamenti, senza modificare la natura politica dello Stato e il potere di chi è al vertice.
Non è un caso che il recupero così forte del senso di un’origine, di una sorta di Cina eterna, sia stato sottolineato in continuazione durante questi dieci anni di Xi Jinping. Wang (e quindi Xi) ha sviluppato una vera e propria epica, alla ricerca di quegli elementi di continuità tra grandezza cinese e ruolo storico del Partito comunista cinese, il veicolo odierno del “destino” della Cina: quello di essere una potenza mondiale e soprattutto di essere “diversa” dal resto del mondo, contribuendo non poco alla considerazione della Cina come “civiltà” costretta suo malgrado a convivere nelle sembianze di uno “Stato-nazione”.
Wang Huning negli anni ‘80 sistematizza il suo pensiero, che in realtà lambisce la scienza politica senza esserlo davvero. Il tumulto delle aperture trasporta la Cina - sostiene Wang - da una società basata sulla politica ad una basata sull’economia. Il suo terreno di analisi iniziale però, non è la Cina. Sono gli Stati Uniti. A questo proposito Chang Che sul New Yorker ha scritto che il libro “America against America” scritto da Wang e pubblicato nel 1991, dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti, è il libro da leggere dopo gli avvenimenti di Capitol Hill del gennaio 2021. Chang scrive:
“C'è un senso di panico morale che attraversa il libro”, mi ha detto Matt Johnson, visiting fellow della Hoover Institution, “Wang percepisce la decadenza culturale intorno a lui”
In alcuni passaggi del libro Wang sottolinea la mercificazione totale degli Usa e la straordinaria spinta tecnologica: da un lato ne evidenzia l’importanza creativa, dall’altro ne registra i rischi sociali senza un adeguato controllo, senza una gestione in grado di fornire una visione (o una missione) alla popolazione e che sia in linea con la necessità di governare lo Stato. Infatti cita e utilizza parecchi autori conservatori americani che evidenziano - già allora - la mancanza di “valori” della società americana (intendendo per mancanza un distacco “dalle origini” fondative degli Stati Uniti).
Wang Huning deve molto al 1989, l’anno terribile della Cina che porta al potere Jiang Zemin. Politicamente è uno dei momenti più duri per il Partito: dopo la repressione delle proteste studentesche, la sfiducia e il sospetto per il Partito da parte della popolazione è al massimo (una situazione analoga a quella che incontrerà Xi Jinping, che arriva al potere nel 2012 quando corruzione e favoritismi minano la credibilità del Partito di fronte alla popolazione).
Prima dell’incoronazione di Jiang c’erano state le epurazioni di Hu Yaobang e Zhao Ziyang, premier e segretario. Epurazioni decise da Deng Xiaoping e il gruppetto di ex rivoluzionari con cui Deng ha continuato a controllare il paese, in totale mancanza del rispetto delle regole dello Statuto del Pcc.
Jiang Zemin all’epoca ha pochi alleati (non ha una base di potere, specie tra i militari) ma parecchi consiglieri, dote di una famiglia che vanta un eroe della Rivoluzione; inoltre ha dimostrato di saper gestire le proteste a Shanghai ed è stato intransigente con una testata giornalistica che non aveva seguito gli ordini (evento che creerà una prima frattura con Zhao Ziyang). Uno dei suoi consiglieri è Wu Bangguo (che poi diventerà vice premier e presidente dell’assemblea nazionale).
Wu aveva notato Wang Huning alla Fudan a Shanghai, dove era diventato professore a soli 29 anni.
Wu capisce che Wang ha le risposte giuste, proprio quelle che cerca Jiang Zemin, la cui principale preoccupazione è come adattare la Cina alle riforme economiche e a soluzioni occidentali, preservando il controllo del Partito sulla “tenuta” culturale del paese. E così gli segnala Wang. Non potevano che andare d’accordo.
Agli studenti in protesta, che Jiang incontra a Shanghai, l’allora segretario del Pcc della città aveva spiegato che è giusto guardare altrove per trovare ispirazione ma che non si può dimenticare “il contesto”. In Cina, dice Jiang in sostanza, ci vuole tempo, bisogna rispettare le usanze e le tradizioni e non cadere in frettolose scelte filo occidentali.
Come ha scritto David Ownby (che ha tradotto alcuni scritti di Wang, trovate i link in fondo)
Wang fa parte di quella serie di intellettuali che hanno identificato la modernizzazione come un processo in permanente tensione con i sistemi di credenze condivise che tengono insieme le comunità umane. Vista dal punto di vista dell'ordine politico, la modernizzazione è auspicabile solo nella misura in cui può essere controbilanciata dalla creazione di nuovi sistemi di valori il cui ruolo funzionale è mantenere le istituzioni forti e le società governabili. Gli Stati forti sono stati culturalmente unificati. Per un intellettuale dell'establishment nel contesto della Cina governata dal PCC, questo significa preservare e centralizzare l'autorità del Partito; rinnovare ed espandere la fede nel socialismo e ricalibrare la globalizzazione per rendere il sistema internazionale più favorevole alla sopravvivenza del Partito.
Wang diventerà un punto di riferimento di Jiang Zemin (che citerà alcune sue opere anche durante i suoi viaggi negli Stati Uniti). Servirà anche sotto Hu Jintao, poi proverà a liberarsi di questa relazione durante i primi cinque anni di Xi Jinping (come abbiamo visto nella prima newsletter Xi ha raso al suolo i funzionari vicini all’ex presidente).
Wang però è attento ed entra nelle grazie anche di Xi Jinping. Nel 2017 assume anche l’incarico più prestigioso all’interno dei meccanismi culturali del Partito comunista, ovvero la direzione del Central Policy Research Office, il cuore dell’elaborazione politica del Partito (carica che ha abbandonato solo di recente, il che lascia presupporre possa essere posizionato in qualche ruolo istituzionale più visibile nel Congresso in arrivo. In fondo c’è un link su questo aspetto).
L’intervista
Sui temi “suggeriti” da Wang ho chiesto alcune cose a Marco Fumian, professore associato all'Università di Napoli L'Orientale, dove insegna lingua e letteratura cinese moderna.
In questi giorni, leggendo alcuni scritti di Wang Huning, ho pensato a questo: è vero che il soft power cinese a mio avviso agisce poco sulle nostre società in termini di spostamento, ad esempio, della percezione pubblica circa la Cina. Ma a suo modo la visionarietà (quella che chiamo semplificando “epica”) di Xi Jinping ha forse portato a sovrastimare la reale portata in termini di forza geopolitica della Cina?
Non sono sicuro che il soft power cinese negli ultimi anni non abbia agito efficacemente. Certo, oggi l’appeal della Cina è ai minimi storici. Ma l’“attrazione” verso la Cina è cresciuta in modo costante almeno fino a tre anni fa, non solo in Italia dove forse è cresciuta più che altrove, ma in tutto il mondo occidentale.
Certo sembra strano, oggi, che tale crescita sia avvenuta proprio durante il mandato di Xi Jinping, ovvero proprio nel periodo in cui in Cina aumentavano le repressioni e cresceva la pressione della propaganda, ovvero l’esatto contrario di ciò che uno si aspetterebbe da un paese votato a trasmettere un consenso.
La paradossale crescita di appeal nella Cina di Xi Jinping era però il risultato di un doppio processo storico che in questo periodo giungeva al culmine: da un lato la crisi sempre più conclamata del sistema capitalista e liberale nel mondo occidentale, divenuto sempre meno credibile: le crisi finanziarie, l’impoverimento del welfare e dei salari, lo svuotamento della democrazia parlamentare, l’affermazione dei sovranismi se non delle tendenze autoritarie, la disgregazione delle prospettive socialdemocratiche, etc.
Dall’altro la favola del miracolo cinese che ormai diventava senso comune: la Cina come “modello”, la Cina come “opportunità”, la Cina come paese del “futuro”, etc., il tutto inserito negli sforzi sempre più consistenti del governo cinese di cooptare uomini di business, politici, giornalisti, studiosi e studenti nella narrazione del “sogno cinese”.
Diciamo che in queste circostanze il PCC ha avuto un gioco abbastanza facile nel promuovere la Cina come una forza positiva, progressiva, futurista, e quindi visionaria, come dici tu, tanto agli occhi degli alfieri del capitalismo globale che vedevano nella Cina la forza trainante della crescita economica mondiale quanto viceversa agli occhi di chi voleva vedere nella Cina un’alternativa positiva, magari addirittura “socialista”, all’egemonia capitalista occidentale e in particolare statunitense.
Ciò naturalmente non ha abbattuto molti dei pregiudizi e degli stereotipi occidentali nei confronti della Cina, ma ha contribuito a diffondere visioni benevole e cariche di aspettative che si incontravano e in parte si fondevano con le “immagini positive” della Cina che il governo cinese si sforzava di trasmettere.
Questa percezione, però, a un certo punto si è scontrata con la nuda realtà dei fatti. È come se i successi economici cinesi avessero fatto lievitare le azioni della Cina creando una specie di bolla che alla fine all’improvviso è scoppiata. E ciò non è avvenuto solo per il recente indurimento della propaganda ideologica “atlantista”, anche se questa ovviamente sta facendo la sua parte.
Sono state le stesse politiche del governo cinese, col tempo divenute più chiare, a sgonfiare le aspettative positive sulla Cina. Se il soft power è, almeno in parte, la percezione esterna delle condizioni interne di un paese (anche il soft power americano ha risentito pesantemente del progressivo deterioramento delle condizioni della sua democrazia soprattutto negli ultimi anni), come può il governo cinese pensare di narrare il proprio paese come potenza pacifica, armoniosa, responsabile, oggi addirittura democratica, quando i cosiddetti “valori cinesi” che questo ha insistentemente cercato di codificare e promuovere come essenza della propria virtuosa diversità sono puntualmente sconfessati dalle azioni che vengono portate avanti in patria?
Senza considerare i rapporti sempre più tesi che il governo cinese intrattiene non solo con il mondo occidentale, ma anche con i propri vicini asiatici. (Vedi serie di Sinosfere sulle Visioni Asiatiche).
Tuttavia, come la forza geopolitica della Cina di Xi Jinping, in termini di soft power, è stata forse sovrastimata, così il rischio è che oggi e nel prossimo futuro questa venga sottostimata, soprattutto alla luce della forza oggettiva, e non meramente percettiva, su cui la Cina oggi può contare a livello geopolitico.
Tra l’altro se Wang Huning nel 1993 per primo notava in Cina che con la fine della Guerra Fredda il soft power, ovvero il potere seduttivo della cultura, diventava più importante dell’hard power, ovvero della nuda forza economica e militare, allora oggi potremmo forse dire che, nelle circostanze dei contrasti odierni l’hard power rischia di prendere il sopravvento rendendo il soft power irrilevante. L’invasione russa dell’Ucraina sembra un segnale eloquente di questa possibile transizione.
Gli intellettuali e la Repubblica popolare, una relazione piuttosto complicata. A me pare però ci sia stato uno scarto profondo tra il decennio di Hu Jintao e questi “primi” - mi verrebbe da dire - dieci anni di Xi. Qual è la situazione sotto il profilo intellettuale oggi della Cina?
È indubbio che gli spazi si siano notevolmente ristretti, anche se è difficile dire precisamente quanto. Sappiamo che Xi Jinping ha ri-enfatizzato non solo la centralità del partito e della sua ideologia, ma anche, in modo più significativo per quanto riguarda l’ambito del sapere e della produzione culturale, la necessità di riunificare i “valori” fondanti della società per difendere un’unità nazionale e una coesione sociale che si percepiscono come minacciate.
Sappiamo che ciò ha significato un’offensiva contro i valori liberali e una stretta nei confronti delle attività e delle opinioni della cosiddetta “società civile”, una società civile che aveva cominciato faticosamente a emergere proprio nel decennio precedente. Per contro il partito ha spinto per re-“indigenizzare” la cultura nazionale enfatizzando l’eccezionalità e nello stesso tempo l’universalità dei “valori cinesi” (un misto di visioni attinte dalla “saggezza” della tradizione, dal retaggio socialista, e da una modernità intesa soprattutto come razionalità strumentale).
Se ciò da un lato ha reso estremamente precaria l’espressione di idee e opinioni autonome e innovative a livello popolare, per esempio attraverso l’uso di internet, togliendo il terreno sotto i piedi a quelli che qualche anno fa erano stati definiti “intellettuali cittadini”, dall’altro ciò ha comportato per gli intellettuali dell’establishment – coloro cioè che hanno posizioni ufficiali negli organi statali, come università, centri di ricerca, istituzioni culturali… – la necessità di aumentare ulteriormente il proprio sforzo di autosorveglianza.
Spesso lo schema di comprensione occidentale del rapporto potere/intellettuali in Cina è basato su una dialettica repressione/dissidenza, ma questo schema funziona poco per capire le dinamiche dominanti con cui il potere coopta, o disciplina, la produzione del sapere nella Repubblica Popolare. Peraltro, questo schema ha come assunto implicito quello che gli intellettuali cinesi sarebbero in qualche modo tendenzialmente “contro”, e vorrebbero, se potessero, articolare delle visioni per lo più critiche o divergenti.
In realtà gli intellettuali cinesi sono da sempre “embedded” nel sistema politico della Repubblica Popolare e, se pure alcuni di loro si sforzano di articolare idee divergenti se non radicalmente critiche, sono comunque strutturalmente portati in primis a collaborare, elaborando le loro idee inscrivendole all’interno degli schemi e dei limiti che sono già stati tratteggiati a monte dal partito.
Ci sono naturalmente eccezioni. Ma i dissidenti sono pochi, e quelli che hanno idee radicalmente alternative in genere non trovano spazio di espressione.
La conseguenza è che, con la restrizione degli spazi discorsivi nell’agorà pubblica, anche il range di discorsi disponibili per gli intellettuali sembra essersi assai ridotto. Non leggo sistematicamente quello che scrivono gli intellettuali cinesi, ma quello che trovo, in genere, sembra essere quasi sempre limitato alle solite tematiche e preoccupazioni del governo cinese, per lo più legate alla competizione con gli Stati Uniti, all’ascesa della potenza cinese, al confronto fra Cina e Occidente, etc.
Certo potrei sbagliarmi. Inoltre mi pare che molte delle discussioni siano state ri-confezionate alla luce della re-indigenizzazione culturale di cui sopra. Anche chi vorrebbe articolare idee divergenti e critiche, temo, deve entrare in questo regime discorsivo.
Quindi le differenze con il decennio Hu-Wen ci sono, sono evidenti. Anche se però occorre fare delle precisazioni. Il primo è che la stretta ideologica in Cina era cominciata prima dell’arrivo di Xi Jinping al potere, e quindi non si può dire che sia stato Xi Jinping, unilateralmente, a invertire delle tendenze in corso. Inoltre il controllo ideologico di Xi Jinping, sebbene programmatico fin dall’inizio, si è acuito ed esteso nel corso degli anni, segno forse che la sua intensificazione è stata anche il frutto delle tensioni crescenti con gli Stati Uniti, che hanno accentuato per il partito il senso di minaccia.
In secondo luogo, tendo a pensare che la maggiore apertura di quegli anni non fosse il risultato di una sorta di tendenza liberalizzatrice genuinamente abbracciata almeno in parte dal partito, che poi sarebbe stata soppressa proprio da Xi Jinping.
La maggiore libertà di quel periodo, secondo me, era soprattutto il frutto delle congiunture strutturali dell’epoca. I primi anni duemila erano gli anni in cui la Cina da un lato stava entrando a pieno titolo nella globalizzazione, e quindi doveva conquistare la fiducia dell’“occidente”, mantenere un “profilo basso”, continuare ad “accumulare” capitali economici e simbolici, incrementare gli scambi, etc..
Dall’altro erano gli anni in cui la Cina stava ancora completando la transizione all’economia di mercato, il che significa che bisognava dare spazio all’iniziativa privata, promuovere l’imprenditoria, educare la popolazione e in particolare i giovani all’individualismo economico, deregolamentare e intanto chiudere un occhio se non tutti e due sulle eventuali violazioni delle norme.
Non stupisce che, in queste circostanze, la Cina fosse attraversata da un certo filo-occidentalismo e da uno spirito di laissez-faire che si traduceva anche in una certa tolleranza culturale. Ciò si concretizzava in un maggiore pluralismo e in una più ampia sperimentazione nelle visioni politiche e culturali, e in una parziale autonomizzazione dell’opinione pubblica a partire dalle istanze dei cittadini.
Questa tolleranza, però, secondo me era una tolleranza a tempo. Infatti, quando il partito ha cominciato a percepire l’autonomizzazione della società come una minaccia al proprio potere, ha cominciato a enfatizzare di nuovo il controllo. Con questo non sto dicendo che quella impressa da Xi Jinping era l’unica evoluzione possibile per la Cina e che le cose andranno avanti così per sempre, ma che le logiche dei due decenni messi a confronto rispondono principalmente alle circostanze specifiche delle due epoche storiche: questo adattamento alle condizioni storiche “oggettive”, in base a una serie di calcoli, in fondo è ciò che il partito ancora oggi chiama marxismo.
Sempre a proposito di epica: in Cina si ridiscute molto di tianxia. Ci spieghi in che modo questo concetto diventa funzionale al discorso internazionale del Partito comunista?
Il tianxia è un esempio fulgido della re-indigenizzazione culturale promossa negli ultimi anni dalle autorità cinesi, con la collaborazione di molti intellettuali. Ed è anche un esempio secondo me dell’efficacia del soft power cinese nel decennio scorso. Da tempo, infatti, si cerca in Cina di promuovere un brand di Relazioni Internazionali “con caratteristiche cinesi”, attingendo in particolare al pensiero politico della Cina pre-imperiale (più di duemila anni fa), con l’obiettivo dichiarato di controbilanciare, in una spinta anti-egemonica, il dominio delle visioni occidentali nella teoria e nella pratica di questa disciplina.
I pensatori più influenti in quest’ambito, come Zhao Tingyang, Yan Xuetong, e Qin Yaqing, sono stati tutti tradotti in inglese e ampiamente discussi in occidente quantomeno a livello accademico, anche se spesso le loro idee hanno incontrato non poche perplessità.
Premetto che ho una conoscenza molto superficiale delle loro visioni. Appare chiaro, tuttavia, che questo sforzo di reimmaginare le Relazioni Internazionali secondo un punto di vista “essenzialmente” cinese, non risponde tanto a una volontà di de-colonizzare la disciplina, quanto semmai a quella di costruire una nuova egemonia.
Si parte, in estrema sintesi, dall’ideale, sicuramente nobile, di creare un mondo più giusto in quanto più integrato, unito da un consenso valoriale e da norme etiche condivise, dal prevalere della responsabilità sugli interessi, dal primato delle relazioni rispetto a quello delle singole istanze degli stati. Questo semplificando al massimo. Ma poi, nei fatti, com’è che si creerebbe questa unità? Va detto che questo mondo presupporrebbe, e anzi in teoria dovrebbe istituzionalizzare, un ordine gerarchico, un ordine in cui ci dovrebbe essere almeno uno stato centrale a garantire che le relazioni vengano condotte in modo etico.
E quale sarebbe questo stato egemone? E chi codificherebbe le norme etiche e il modo di concepire le relazioni? La risposta è ovvia, ed è chiaro che un simile immaginario racchiude quantomeno l’aspirazione a tratteggiare un mondo più sinocentrico. Per cui una domanda sarebbe: chi garantirebbe che questo sistema sarebbe più virtuoso, meno incentrato sui rapporti di forza, rispetto al sistema oggi dominato dagli Stati Uniti?
Altra domanda: come potrebbe un sistema di questo tipo garantire il consenso e l’armonia in presenza della diversità e del conflitto? Forse la Cina come stato egemone di un tianxia globale promuoverebbe gli stessi metodi che usa per garantire l’armonia in patria? Ma il punto su cui nutro dubbi più forti è quello culturale, anzi direi civile. La Cina moderna, come sappiamo, è nata sul piano culturale proprio attraverso il rifiuto della cultura relazionale confuciana promossa dall’autorità imperiale tradizionale, accusata di sopprimere con la sua matrice gerarchica l’individuo e i suoi diritti.
Da qui è nata una cultura illuminista, di ispirazione occidentale, ma con dei genuini tratti cinesi, la quale però, soppressa prima durante l’epoca maoista, è tornata negli ultimi decenni sotto attacco, in modo particolare negli ultimi anni, nella misura in cui i suoi “valori universali” venivano inquadrati anch’essi come espressione dell’egemonia occidentale. Non sarà quindi che, promuovendo per il mondo intero delle visioni autoctone premoderne vecchie di duemila anni, che enfatizzano l’etica discreta della relazione a fronte dell’individualità dei diritti e della codificazione delle regole, la Cina non contribuisca a portare nel mondo logiche che giovano agli interessi dei governanti piuttosto che alla difesa dei governati, assecondando pertanto una pericolosa tendenza mondiale?
Chiudiamo con il Congresso. Cosa ti aspetti in termini politici dal terzo mandato di Xi?
Onestamente non so cosa aspettarmi, ma non ho grandi aspettative… Sono molto curioso di vedere quale sarà, se ci sarà, il nuovo slogan del partito… già da questo si potrà capire forse che aria tira…
La settimana - fonti cinesi
Wang Huning sul Quotidiano del Popolo
http://paper.people.com.cn/rmrb/html/2022-09/02/nw.D110000renmrb_20220902_7-01.htm
Il governo cinese, la scienza e la tecnologia
https://app.gmdaily.cn/as/opened/n/802fe960c57546b08f94d1605a88589b
La modernizzazione con caratteristiche cinesi
https://www.aisixiang.com/data/136355.html
Comprendere “le due istituzioni”
http://opinion.people.com.cn/n1/2022/0907/c1003-32520921.html
La settimana - fonti internazionali
Il fattore età (e le regole informali per il ritiro dei funzionari)
https://www.scmp.com/news/china/politics/article/3191293/why-retirement-beckoning-11-members-communist-partys-top
Politica e cibernetica
https://reader.foreignaffairs.com/2022/08/31/spirals-of-delusion/content.html
Alcuni articoli di Wang Huning tradotti su readingthechinadream
https://www.readingthechinadream.com/blog/wang-huning-and-more
C’è già un “futuro” Wang Huning?
https://thediplomat.com/2021/12/more-visibility-for-xi-jinpings-point-man-on-ideology-jiang-jinquan/
Il libro (sempre a tema)
Prisoner of the State: The Secret Journal of Premier Zhao Ziyang (Trans & Ed. Bao Pu, Renee Chiang, and Adi Ignatius, Simon and Schuster, 2009)
La “versione” di Zhao sul 1989 cinese. O anche su come i viaggi all’estero nei momenti decisivi della politica interna cinese possano essere piuttosto dannosi. Zhao va in Corea del Nord il 26 aprile del 1989. Torna e si ritrova la legge marziale ed estromesso dalle decisioni. Poco dopo finisce ai domiciliari, dove resta fino alla morte (senza un atto formale e ufficiale del Partito).
Heavy Metal Party
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Che articolo stupendo. Grazie