L'industria del futuro
A furia di guardare Xi si rischia di non vedere la Cina: le indicazioni tech della "nuova filosofia di sviluppo" segnano un cambio di paradigma rilevante. Mosse diplomatiche di Pechino e New Delhi
Set-list :)
L’industria del futuro
Ucraina e Palestina
Arriva Meloni
Asia: novità dalla Corea del Sud
Asia: come è andata a finire in Bangladesh
Link e altre storie notevoli
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L’industria del futuro
Da tempo in Cina si parla di “nuove forze produttive di qualità”. Ministri e commentatori hanno via via fornito una serie di indicazioni su cosa si intenda al riguardo. Possiamo considerare all’interno di questa espressione l’intelligenza artificiale, nuovi materiali, bio e nano tecnologie, eccetera. In generale però questa espressione, se collegata a quanto emerso nel comunicato del Plenum e nelle successive indicazioni, ci restituisce l’idea di un passaggio epocale: la Cina passa da una politica industriale di controllo e rincorsa tecnologica, ad una di innovazione netta, molto più netta che in passato.
Questo coinvolge diversi aspetti che hanno a che vedere con la produzione, l’istruzione, la ricerca e il capitale, la cui allocazione diventa fondamentale a questo punto. Possiamo dire che le avvisaglie arrivano da molto prima dell’ormai celebre viaggio di Xi in Heilongjiang nel settembre 2023, quando aveva invitato il paese a mobilitare le nuove forze produttive di qualità: pensiamo solo alla tenace rettificazione delle piattaforme.
Era un segnale a scandire una politica in atto da tempo: meno software, più hardware, potremmo dire per semplificare. O anche: meno piattaforme, più batterie al litio.
Insomma se gli obiettivi della politica industriale cinese fino a qualche anno fa erano fissati sulla necessità di padroneggiare tecnologie consolidate e cercare - come accade dal 1949 - l’autosufficienza in alcuni settori, ora l'obiettivo è quello di rendere la Cina un leader nell'innovazione delle nuove tecnologie. Per questo serve un “nuovo sistema nazionale”, che sembra significare anche un controllo più centralizzato dell’allocazione del capitale.
Ora, ricordiamo velocemente: durante l’epoca maoista lo sforzo scientifico e tecnologico del paese era di fatto diretto dalla necessità di difendersi militarmente. Il progetto cardine dell’epoca fu “due bombe e un satellite”. Nonostante i fallimenti di alcuni piani di Mao, come il grande balzo in avanti, l’epoca maoista vide anche raggiungere alcuni notevoli successi tecnologici (i primi computer, i laser, eccetera). Poi nell’era di Deng la Cina cercò di raggiungere un obiettivo su tutti: agganciarsi all’era dell’informazione, attraverso una liberalizzazione della ricerca che diede il via alla nascita della Cina come la conosciamo oggi. Negli anni ‘90 quei piani divennero centrali, sotto la guida di Jiang Zemin.
Facciamo un salto: nel 2006, sotto Hu Jintao, il Partito comunista adotta il “Medium and Long Term Program of Science and Technology”, uno dei piani più ambiziosi nella storia della Repubblica popolare. Si tratta di un ritorno alle politiche industriali su larga scala, una specie di update del programma 863 elaborato negli anni ‘80 (un piano che affidava agli scienziati il potere, per dirla in modo semplice).
Il piano ha anche un suo risvolto politico, con Hu Jintao e Wen Jiabao che sembrano rivendicare un posto nella storia del Partito, attraverso alcune formule che caratterizzano la loro era, quali “innovazione indigena” e “Paese innovativo”. Questi due slogan riescono nell’intento di fare appello sia ai militari sia ai civili, smuovendo sentimenti patriottici e portando all’interno del progetto tante voci e tanti talenti emergenti.
La dirigenza cinese in questa circostanza utilizza ancora qualche veterano di epoca maoista, cominciando però ad affidarsi all’emergente classe di scienziati che porterà la Cina a diventare quella che conosciamo oggi.
Il piano era molto ambizioso: la Cina intendeva aumentare la spesa totale in ricerca e sviluppo espressa in percentuale al 2,5% entro il 2020, aspirava a diventare “una delle principali nazioni scientifiche del mondo” entro la metà del secolo, e a ridurre la propria dipendenza dalla tecnologia straniera in modo drastico.
Una caratteristica chiave del piano è costituita dai cosiddetti megaprogetti, sia civili sia militari, il cui intento era aumentare le capacità scientifiche in tanti settori, dall’elettronica ai semiconduttori, dal settore aerospaziale a quello della produzione di medicine, dalle telecomunicazioni all’energia pulita.
I megaprogetti di cui si parla nel piano sono tredici a cui vanno aggiunti tre progetti a lungo tenuti segreti: il primo progetto segreto sarebbe stato quello relativo al laser Shenguang, che doveva esplorare la fusione a confinamento inerziale come approccio alternativo per ottenere l’energia di fusione inerziale, una reazione di fusione nucleare controllabile e sostenuta da una serie di laser ad alta potenza. Le sperimentazioni al riguardo erano cominciate già nel 1993.
Il secondo progetto è il sistema di navigazione satellitare BeiDou di seconda generazione, completato nel 2020.
Infine il terzo progetto aveva a che fare con la tecnologia per veicoli ipersonici. Il piano del 2006 è stato rinnovato nel 2021.
Cong Cao, Jeroen Baas, Caroline S. Wagner, Koen Jonkers in “Returning scientists and the emergence of China’s science system” hanno scritto che con il piano del 2006 la Cina voleva raggiungere alcuni obiettivi specifici, come ad esempio trasformare il modello made in China nel modello created in China, concentrarsi meno sull’attrazione di capitale straniero e più sull’attrazione di capitale umano, il passaggio da un modello basato sugli investimenti a uno basato sull’innovazione. Oltre a fornire linee guida e obiettivi strategici, il piano raccomandava obiettivi nazionali di sviluppo dei talenti, come istituire programmi nazionali per sostenere e alimentarne lo sviluppo in vari campi e aree prioritarie in cui sono necessari miglioramenti nella politica e nel rafforzamento delle istituzioni per impiegare meglio le persone più dotate.
Questo piano segna un passaggio storico fondamentale.
Xi Jinping ha preso tutto questo e per spingere ancora di più sui due cardini della politica di Hu Jintao ha aggiunto le “nuove forze produttive”. Notiamo alcune caratteristiche: intanto è un termine specificamente marxista, decisamente distante dal lessico più tecnico dei documenti di Hu o del suo predecessore Jiang Zemin.
Poi, in una sessione di studio del Politburo del 31 gennaio 2024, Xi ha affermato che l'innovazione tecnologica è “l'elemento fondamentale per lo sviluppo di nuove forze produttive”. Quindi potremmo concludere che l’adozione della terminologia distingue la fase di Xi dalla precedente, proprio a rimarcare una traccia ideologica.
In secondo luogo abbiamo un salto di qualità: lo scopo - espresso anche negli obiettivi sanciti dal comunicato finale del terzo plenum - è quelli di trasformare la Cina in un paese che porta a casa nuove scoperte, una innovazione più volte definita dirompente.
Del resto va notato che già nel 2018 erano stati espressi gli obiettivi da raggiungere (tra cui anche i BCI, brain computer interface, di cui ho scritto qui).
La storia della tecnologia cinese dal 49 a oggi l’ho raccontata in un libro, pieno di storie di scienziate e scienziati che hanno portato la Repubblica popolare a essere, oggi, una potenza tecnologica. Il libro si intitola Tecnocina, add edizioni, lo trovate qui.
Ora, a proposito di industrie del futuro: dalla risoluzione del Terzo Plenum queste includono tecnologia informatica, intelligenza artificiale, settore dell’aviazione e aerospaziale, nuove risorse energetiche, nuovi materiali, biomedicina e tecnologia quantistica. Insomma un vero e proprio update di “Made in China 2025”.
Come scritto da Kyle Chan, post doc presso il Dipartimento di Sociologia della Princeton University: “Lo "sviluppo di alta qualità" si concentra sulla “hard economy”. Ciò include la creazione di una produzione avanzata, l'ammodernamento industriale e il rafforzamento delle catene di fornitura.
La tecnologia digitale è in primo piano, ma quasi sempre nel contesto del potenziamento o del supporto della cosiddetta "economia reale".
Questo ci spiega anche un’altra cosa: perché la Cina sembra così tiepida nei confronti dell'IA generativa, che la risoluzione menziona solo brevemente nel contesto della governance del cyberspazio”. (Su questo aspetto vi rimando a un pezzo di Andrea Signorelli su Lucy, all’interno del quale ci sono alcuni miei pareri a questo proposito).
Insomma, “Le nuove forze produttive si concentrano su scienza e tecnologia. La Cina non vuole solo un miglioramento costante, ma anche “svolte rivoluzionarie nella tecnologia”. Queste svolte dovrebbero dare origine a nuove industrie che diventeranno nuovi motori della crescita economica futura”.
Vedremo nello specifico come alcuni piani si concentreranno su questo o su quell’altro fattore. Ma già questo aspetto relativo alle “industri del futuro” ci dice alcune cose.
La più importante io credo sia questa: tutti — analisti, sinologi, quelli che Hessler definisce “sideline”, si concentrano su Xi Jinping, sulla sua presa, sulla sua onnipresenza, sul culto della personalità; per carità, tutto vero.
Ma in questo modo ci si ostruisce la visuale su un fatto che chi si occupa di Cina, ha ormai imparato a conoscere: il paese va avanti lo stesso e va avanti in due direzioni. Una è quella dei piani per il futuro, l’altra è quella di tutto quanto si muove, anche criticamente, sotto questa superficie (come mirabolmente spiegato da Ian Johnson in un libro imprescindibile per chi si occupa di Cina).
Un altro aspetto che ci dice tutto questo ha a che vedere con la sfida con gli Usa: questa proiezione cinese non farà che porre nuovi confini alla sfida con Washington che è prima di tutto tecnologica.
Ucraina e Palestina
“La Cina è una storia, il tianxia una teoria”: è la prima frase del libro “Sotto il cielo, tianxia” (Astrolabio Ubaldini, 2024, traduzione di Alessandra Lavagnino) di Zhao Tingyang, un filosofo politico cinese. In questo incipit abbiamo due elementi attualissimi: la Cina come “narrazione”, come “racconto” (e non come “Storia”, come specifica Lavagnino nella sua traduzione), quindi qualcosa di mutevole, cangiante e progressivo. Una “narrazione” a cui ciascuna leadership aggiunge un pezzo in quella che chiamo “discontinuità nella continuità”).
Il tianxia come teoria, ovvero il recupero di un concetto basato su un mondo interconnesso e pacifico (“sotto lo stesso cielo”), nel quale la Cina è al centro e non sopra (come lo sono gli Usa nell’ordine globale neo liberale a guida statunitense, per intenderci).
Zhao Tingyang è l’interprete di una teoria antica, diventata di recente retorica ufficiale. Se vogliamo semplificare: l’ordine mondiale nell’idea dell’attuale leadership di Pechino è il “tianxia”, un ordine paritario e pacifico, armonioso, in grado di sciogliere ogni nodo, grazie alla saggezza che scorre sotto il cielo, mediata dalla pacifica Cina.
È una visione, ovviamente, sinocentrica, ma ci pone anche di fronte a una teoria che poi è da ricercare e trovare all’interno della pratica, ovvero l’attuale postura internazionale della Cina.
Partiamo da un esempio: la posizione cinese sulla guerra in Ucraina è stata fonte di molte preoccupazioni per Pechino: la decisione di non abbandonare la Russia, anzi di supportarla politicamente ed economicamente, pur dichiarando di non sostenere il suo sforzo bellico, ha notevolmente peggiorato l’immagine della Cina a livello internazionale. Nel corso di questi due anni, però, proprio il nuovo assetto internazionale ha posto il Pcc di fronte alla necessità di spiegare e di elaborare una strategia internazionale capace di recuperare i cardini della sua politica estera e adattarsi al nuovo scenario.
Ne sono emersi diversi documenti: prima il position paper a proposito della guerra in Ucraina (erroneamente considerato un piano di pace dalle nostre parti), poi l’iniziativa sulla sicurezza globale, poi uno sulla civiltà globale.
Da tutto questo è emerso un punto: Pechino ha ribadito la sua postura storica nei confronti del Sud globale, scoperto alle nostre latitudini proprio perché la guerra in Ucraina ha fatto emergere un mondo che noi non vedevamo (e ora che lo vediamo non è che siano molto cambiate le posture occidentali al riguardo) e che invece la Cina ha da sempre nelle sue varie posizioni internazionali modificate nel corso del tempo: sia ai tempi di Mao, in piena guerra fredda, sia durante l’epoca di Deng quando la Cina tendeva a mostrarsi piuttosto sobria nelle relazioni internazionali, sia nell’epoca pre Xi con Hu Jintao: proprio Hu, sottovalutato anche da gran parte della sinologia, aveva elaborato quattro pilastri che ancora oggi possiamo dire siano all’ordine del giorno.I quattro pilastri erano: gestire il rapporto con le grandi potenze, gestire la propria area (l’Asia), ricordare la fondazione, l’origine, cioè il sud globale, utilizzare il multilateralismo come strumento.
Ovviamente con Xi Jinping siamo in un altro mondo: la politica estera cinese mira a creare un ordine internazionale che ruota intorno agli affari, al commercio e non alla forma politica degli attori internazionali. E propone, ovviamente, la Cina al centro del tianxia. Ma non è un caso che anche in questo caso l’attuale leadership abbia ripescato dal passato dando grande enfasi ai cinque principi di coesistenza pacifica, lanciati da Zhou Enlai (primo ministro e ministro degli esteri di Mao), di cui il Pcc ha celebrato i 70 anni a giugno 2024 (furono lanciati nel 1954 durante una visita in India e poi Myanmar).
Date queste premesse è emerso nel tempo un approccio tattico della Cina alla questione ucraina piuttosto chiaro, in realtà: supporto politico alla Russia in funzione anti occidentale, una retorica che ha presa proprio nel Sud globale, composto da paesi memori di colonizzazioni e altre interferenze occidentali; tentativo di non incorrere in sanzioni e di mantenere relazioni seppure al minimo con l’Occidente, cercando di sfruttarne i cortocircuiti (Ungheria, Serbia, eccetera); non improvvisarsi mediatori ben sapendo che una mediazione tra Russia e Ucraina non era mai arrivata a un punto tale da fare pensare a una possibile soluzione mediata della guerra (considerando inoltre il probabile ostruzionismo americano in caso di un protagonismo più marcato della Cina).
Ora però è innegabile che le cose siano di nuovo fluide: la principale potenza mondiale è attesa da sei mesi di politica estera gestita da un presidente uscente e in grave difficoltà; nonostante i democratici possano competere con Trump per una vittoria, gli Usa sono percepiti al momento come “deboli”; anche l’Europa sente la “fatigue” (di meloniana memoria) di una guerra che sul campo è piantata e non sembra potersi risolvere militarmente.
Ed ecco che arriva l’invito al ministro degli esteri ucraino di recarsi a Pechino. E dalle tre ore di incontro tra Kuleba e Wang Yi, viene fuori una cosa finalmente importante: che Kiev è disposta a coinvolgere la Russia nei negoziati (se “in buona fede” ha specificato Kuleba, ma è già qualcosa).
A margine dell’incontro sono arrivate anche le parole di Zelensky che di recente aveva tuonato contro Pechino e che invece nei giorni scorsi ha detto di fidarsi di Xi, delle sue parole sul fatto che la Cina non vende armi alla Russia.
Insieme all’incontro ucraino è arrivata anche “la dichiarazione di Pechino” di 14 fazioni palestinesi: un accordo fragilissimo e probabilmente senza futuro, ma che ha certificato la volontà della Cina di porsi come mediatore globale, rivendicando due cose: un ruolo come grande potenza, pari agli Usa, e un ruolo, si badi bene, da “facilitatore”.
Come a dire, noi vi mettiamo intorno a un tavolo, poi però serve il vostro impegno. Noi, come Cina, sembra essere il sottotesto, non obblighiamo nessuno a fare niente. Non può essere considerata certo una politica estera disinteressata, ma quale paese eventualmente si muovo disinteressato?
La proposta cinese è questa, che piaccia o non piaccia, che si sia d’accordo o meno: Pechino può essere mediatrice in un mondo che non è più unipolare. Almeno così lo è per la maggioranza dei paesi del mondo.
Qualche link su questi temi:
- Il ministro degli esteri cinese sulla “dichiarazione di Pechino” - in inglese
- Il parere di Zu Weilie, direttore del Middle East Studies Institute presso la Shanghai International Studies University - in inglese
- Quello di Zhou Bo (ex funzionario ministero della difesa) - in cinese
- Al Jazeera - in inglese
- Foreign Policy - in inglese
Arriva Meloni
Ieri sera è arrivata in Cina la nostra presidente del Consiglio Giorgia Meloni: sui siti cinesi ad ora più della notizia non c’è e neanche è data troppo in evidenza. Insomma, dopo l’uscita da quella che continuiamo a chiamare la nuova via della Seta, Roma prova a ristabilire rapporti economici con Pechino (che in realtà sono già ripresi da tempo).
In attesa di avere readout, pareri, notizie, accordi, vi invito a leggere questo pezzo di presentazione della visita di Andrea Pira, che segue la politica e l’economia italiana e conosce bene la Cina: il pezzo è questo su HuffPost.
Dal 3 settembre sarò in libreria con un nuovo libro sull’Asia, per Mondadori (arriveranno info naturalmente, un po’ più avanti. Il titolo è: “2100”
Asia - Corea del Sud
In Corea del Sud c’è stato un importante evento nel partito conservatore, frutto di lotte interne notevoli e di una posizione non proprio di forza da parte del presidente del paese Yoon: Han Dong-hoon ha trionfato nelle elezioni per la leadership del People Power Party (PPP), il partito al governo, “ottenendo il 62,8% dei consensi”. Han è un volto nuovo, non va d’accordo con Yoon, anzi hanno avuto molti dissidi, ma è l’estremo tentativo del PPP per correre ai ripari dopo la legnata delle legislative dei mesi scorsi.
Han ha 51 anni, “è giovane per gli standard dei politici sudcoreani di alto rango. Come Yoon, è un procuratore di carriera che è salito alla ribalta guidando indagini di alto profilo”.
“Da oggi, andiamo verso il futuro”, ha detto nel suo victory speech Han, “Cavalcheremo l'onda del sentimento pubblico. Spiegheremo di più, convinceremo di più”. Han era stato scelto come ministro da Yoon, poi però era arrivato lo scandalo che ha coinvolto la moglie del presidente e i due hanno pesantemente rotto. Han si è dimesso dal suo incarico ministeriale alla fine dell'anno scorso per assumere la carica di leader ad interim del PPP.
Di seguito alcuni profili di Han, del The Diplomat, di Yonhap (l’agenzia di stampa sudcoreana) e di Hankyoreh (quotidiano di centro sinistra sud coreano)
Asia - Come è andata a finire in Bangladesh
Oltre centosessantacinque morti, blackout delle comunicazioni, poi la sentenza della Corte che dà ragione alle proteste degli studenti, poi denunce di torture, di blocchi di internet ancora in azione (almeno stando a due mie fonti in loco).
La protesta iniziata nelle università contro la quota di posti nei lavori pubblici garantiti ai combattenti per l’indipendenza del 1971, ha messo a nudo una realtà sociale che dalle università (quindi dai membri della futura elite del paese) è diventata qualcos’altro, una lotta più popolare contro un governo diretto da ormai 15 anni da Hasina.
Qualche link per approfondire:
- l’intervista del ministro dell’informazione ad Al Jazeera
- sempre su Al Jazeera, denunce di leader studenteschi arrestati in ospedale
Link e altre storie notevoli dall’Asia
Anche Modi si muove: dopo la mossa cinese sull’Ucraina, il premier indiano si recherà in Ucraina ad agosto
Sri Lanka, si vota il 21 settembre. Il paese sta vivendo una delle peggiori crisi finanziarie della sua storia
L’Asia meridionale non esiste più: un bel pezzo di Foreign Affairs che smonta un altro luogo immaginario creato da noi occidentali :)
Lo spostamento interessante di un diplomatico da parte di Pechino
Indonesia, i social e le minoranze religiose
Per i funerali del segretario del Partito comunista vietnamita è arrivato anche Blinken
C’è un nuovo album dei Carsick Cars
Per chi si fosse iscritto di recente, qui trovate gli archivi